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Lavoro flessibile, perché è riservato solo alle donne?

La flessibilità nel lavoro è ormai richiesta da molte aziende, ma come mai sembra che siano soprattutto le lavoratici donne a doversi “sacrificare”?

Di flessibilità sul lavoro si parla ormai come di una necessità acquisita, in un mondo in cui – come anche ribadito dal nostro premier Matteo Renzi più volte – il posto fisso non esiste più e la precarietà potrebbe diventare una risorsa e non un limite, è cruciale essere pronti a riqualificarsi e adattarsi alle esigenze di un mercato sempre più competitivo.

Pertanto, i “nuovi” lavoratori, ma sovente anche i professionisti di “vecchia data”, devono rendersi disponibili a modulare le proprie prestazioni in base alle necessità dell’azienda.

Flessibilità significa essere disposti a cambiare i proprio orari di lavoro, anche spesso, a spostarsi in altra sede (sovente anche lontana dal proprio comune di residenza), a passare da un full-time ad un part-time e viceversa all’occorrenza, a lavorare da casa, in remoto (per far risparmiare l’azienda), o a condividere il proprio turno con qualche collega per nuove mansioni. Insomma, il termine flessibilità di declina in molti modi, ma una cosa è certa, ha un genere preciso: quello femminile.

Il lavoro flessibile è sempre più “rosa”, e questo è un dato di fatto non necessariamente negativo, che va analizzato. Per quale ragione, infatti, un’azienda ritiene più logico ed economico “pretendere” la flessibilità soprattutto dalle dipendenti donne, mentre si dimostra più restia richiedere altrettanto al personale maschile?

Esiste, dunque, una maggiore predisposizione, genetica o acquisita che sia, delle donne alla flessibilità? Sul Guardian è apparsa un’interessante intervista all’esperta di lavoro Tracey Eker, a proposito delle ingiustificate paure dei lavoratori a proposito di cosa si intenda per lavoro flessibile e cosa comporti in termini di ricaduta economica e di stravolgimento della propria vita.

Il punto che a noi interessa, però, ha a che vedere con noi donne e con la flessibilità “incorporata”. Secondo l’esperta la ragione è legata la fatto che le dipendenti femminili sono da sempre state più propense ad accettare un part-time rispetto ad un full-time o, addirittura, a richiederlo loro stesse, un’attitudine che è anche all’origine delle discrepanze salariali tuttora esistenti tra lavoratrici e lavoratori.

Questo gender gap in busta paga, quindi, è stata praticato dalle aziende negli anni molto a lungo e perché si è privilegiata non tanto la qualità del lavoro quanto la quantità di ore passate in ufficio. Il che naturalmente, penalizzava le lavoratrici part-time e premiava i lavoratori full-time.

Pertanto la flessibilità potrebbe, paradossalmente, diventare un’alleata per le donne, se praticata con criterio, perché molte aziende stanno già rimodulando gli stipendi non in base alle ore di lavoro fatte ma alla produttività. Quindi, se ci riflettiamo, la naturale attitudine femminile alla flessibilità a 360°, “sfruttata” modo giusto, quindi valorizzata, diventa una marcia in più.

Il problema però è il seguente: in Italia quante aziende praticano questa lungimirante politica? E soprattutto, cristallizzarsi intorno all’idea del contratto fisso e dei diritti dei lavoratori di “vecchia scuola”, ci aiuta davvero a migliorare la nostra posizione lavorativa? Siamo senza dubbio ad un punto di svolta, o ci adeguiamo al nuovo mercato del lavoro, diventiamo adattivi e flessibili, e tuteliamo i dipendenti ma senza “blindare” il posto fisso, o perdiamo il treno.

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Fonte | The Guardian
Foto via Pinterest



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